LUIGI MICELI
Nacque a Longobardi il 7-6-1824. Giovanissimo, compì gli studi letterari e legali. Di mente sveglia, caldissimo di cuore, sposava, nel 1844, subito dopo il martirio dei Fratelli Bandiera, la causa dei pochi e dei vinti, affiliandosi a "La Giovane Italia". Compromesso e perseguitato dal governo borbonico, cospirò sempre fino al 1848, quando il cospirare era la poesia degli animi forti e generosi. Durante i moti insurrezionali del 1848 si iscrisse al Circolo Nazionale di Cosenza, e fu, quindi, insieme con Domenico Campagna, Giulio Medaglia, Domenico Gervasi e Biagio Miraglia, Segretario di quel Comitato di Salute Pubblica. Iniziatasi la lotta contro le orde borboniche rinchiuse a Castrovillari, egli va a combattere, da semplice soldato, nelle file dell'insurrezione. Fallita, quest'ultima, verso la fine di giugno del '48 con la' sconfitta di Campotenese, i superstiti membri del Comitato Cosentino, tra cui il Miceli, riuscirono a mettersi in salvo, sfuggendo così alla feroce reazione e persecuzione borbonica (con sentenza della Corte Criminale di Cosenza del 4 febbraio 1853 verranno, poi, infatti, condannati a morte in Contumacia) — raggiungendo chi Marsiglia, chi Corfù, chi Genova, e, infine, quasi tutti, Roma. Qui il Miceli, insieme con Benedetto Musolino, Domenico Mauro ed altri cospiratori, entrò a far parte del Comitato Nazionale di Liberazione per la convocazione di un'assemblea costituente italiana che proclamasse l'Italia "una, libera e indipendente". Venuti i Francesi, chiamati da Pio IX perchè restaurassero il suo Governo a Roma, egli è nel numero dei difensori della Repubblica Romana a Villa del Vascello ove cadde Luciano Manara e fu ferito a morte Goffredo Mameli, ed è decorato. Esiliato, quindi, a Genova, si dedica alacramente alle discipline delle, lettere e della politica, professando storia e letteratura nel Collegio ligure, fino al 1860. Fu uno degli strenui promotori della spedizione dei Mille e il primo con Garibaldi ad indossare la camicia rossa.
A lui attribuisce di essere stato l'unico che conoscendo, alla partenza da Quarto, il fallimento del moto siciliano cui si faceva il massimo assegnamento per la riuscita dell'impresa, tenne nascosta la notizia — (aveva infatti avuto dall'emigrato Angelo Scura, telegrafista a Genova, una copia del dispaccio col quale si comunicava a Cavour che il moto siciliano era finito) — affinchè la spedizione si facesse, e soltanto a viaggio iniziato la comunicò a Garibaldi, il quale, il 7 maggio, nel porto di Talamone, così diceva al Miceli: "Salo l'anima dannata d'un Calabrese poteva far gesto: bravo Miceli" Avvocato fiscale nei consigli di guerra a Palermo, diede prova dell'integrità del suo carattere. Promosso al grado di maggiore, divenne uno dei
migliori amici di Garibaldi, rimanendogli sempre vicino in tutte le imprese patriottiche, a Sarnico, ad Aspromonte e nel Tirolo ove fu capo della giustizia militare del corpo dei volontari. Nella memorabile giornata di Bezzeca fece prodigi di valore e fu nuovamente decorato. Nel 1861 veniva eletto deputato nel Collegio di Paola, ma, in seguito ad una interpellanza di Ondes Reggio, si dimetteva. Per uno di quei sentimenti che è bello ricordare, i migliori e i più influenti del Collegio di Calatafimi vollero, allora, farsi rappresentare dal Miceli del quale avevano le più simpatiche memorie del 1860. Il Collegio di Calatafimi gli confermò il mandato parlamentare per ben altre due volte: nel 1865, cioè, quando egli ottenne anche i voti di Pozzuoli, e nel 1867, quando fu eletto anche a Cosenza. Egli però, preferì sempre la rappresentanza di Calatafimi. Forse per questo, a Cosenza il Miceli, non avrà, d'ora in poi, più fortuna. «Non rievochiamo forse — scrive Giuseppe Sprovieri — tra i ricordi della nostra giovinezza, a Cosenza, quello della bara, portata in grottesco corteo e ferma dinanzi ai portoni dei più noti eletti, che simbolicamente, avrebbe dovuto contenere la salma delle decedute fortune politiche del Miceli soccombente nella lotta con la Spada?» Alla Camera sedette sempre a sinistra, quale menmbro del Partito d'Azione. Sostenitore delle più ampie riforme amministrative, ebbe a stigmatizzare coraggiosamente in Parlamento il dissolvente sistema accentratore, che soffocava ogni iniziativa locale e tagliava i muscoli all'attività comunale e provinciale.
Fin dal 1363 egli aveva, inoltre, spinto il governo a modificare e riorganizzare radicalmente la polizia. Avversario sincero di ogni arbitrio governativo, ebbe ad elevarsi sino all'invettiva quando la facoltà dell'arbitrio si concedeva con legge. E poiché l'istituzione dei carabinieri era quella che dava maggiori reclami per il modo con cui essa esercitava la polizia, specialmente nelle province lontane dal centro, il Miceli, a più riprese, domandò energicamente serie riforme, svelando violenze e soprusi incompatibili ormai con la civiltà dei tempi e con la libertà del paese. In finanza propugnò la cessazione dello sperpero del denaro pubblico e l'economia amministrativa, tagliando tutto il superfluo riformando radicalmente tutta l'amministrazione statale, incominciando dal modo dell'esazione delle imposte sino alla gestione dei demani, riducendo il lusso delle rappresentanze sia nell'amministrazione civile che in quella militare, riformando l'organizzazione giudiziaria con l'estendere le attribuzioni alle preture e semplificando l'andamento della giustizia. Tra le riforme giudiziarie egli comprendeva, inoltre, la liberazione del Pubblico Ministero dalla dipendenza del potere esecutivo. Propugnò ancora una riduzione delle spese del Ministero della Guerra, e richiamò più volte l'attenzione della Camera sulle spese della Marina. A compimento della moralità nell'amministrazione, sostenne energicamente l'abolizione della garanzia amministrativa: l'irresponsabilità. Negli annali parlamentari italiani è celebre l'invettiva: «Vergognatevi!» che il coso parlamentare calabrese pronunziò piena Camera dei Deputati nella seduta del 1 febbraio 1887, dopo che il Presidente del Consiglio Depretis comunicò il telegramma Genè, proveniente da Massau che recava le prime notizie dei luttuosi combattimenti di Dogali «E' mostruoso — diceva un giorno alla Camera
— che un Sindaco o un Prefetto possa fare impunemente cose per le quali un cittadino qualsiasi sarebbe senz'altro tradotto in giudizio.» In politica estera sostenne sempre l'alleanza dell'Italia con la Prussia: riteneva, infatti, non duraturo, perché nato dalla violenza e basato sull'immortalità, l'Impero francese. La vivacità del linguaggio del Miceli era nota a tutti: ciò è dimostrato dall'arguto epigramma di G. B. Giorgini: «Io prego li Signore — del regno dei cieli — che quando egli parla — miceli miceli. ». Negli annali parlamentari italiani è celebre l'invettiva: «Vergognatevi!» che il coso parlamentare calabrese pronunziò piena Camera dei Deputati nella seduta del 1 febbraio 1887, dopo che il Presidente del Consiglio Depretis comunicò il telegramma Genè, proveniente da Massau che recava le prime notizie dei luttuosi combattimenti di Dogali e di Saati. Altri senti «Svergognati!».
Di Robilant, che era Ministro degli Esteri mostrò il pugno a l'opposizione. Le grida, gli urli, le ingiurie furono incredibili. Se il Presidente Biancheri non avesse sospesa la seduta, qui giorno, alla Camera, i deputati sarebbero venuti certamente alle mani. L'apostrofe del Miceli, manca però, nel resoconto stenograflco della seduta. Pure del Miceli è la famosa frase, passata poi in proverbio, «Becchini della Monarchia», con la quale egli apostrofò, in Parlamento, i Ministri nella seduta dell' 8 maggio 1873, in fine di un discorso pronunziato sul progetto di legge relativo alla soppressione delle corporazioni monastiche della provincia di Roma. Disse allora che «se Lanza e i deputati della destra aves-sero continuato ad assoggettare lo Stato alla Chiesa, un giorno avrebbero avuto a pentirsi di essere stati i becchini della Monarchia. ». Tale frase fu da lui ripetuta il 12 febbraio 1875 parlando delle elezioni politiche generali e dei fatti di' Villa Ruffi ; questa volta, però, il Presidente, che era, come la prima volta, l'on. Biancheri, non la lasciò passare inosservata: rimbrottò, infatti, vivacemente: «On. Miceli, è una invettiva indegna di lei e della Camera, ed è la più sconveniente che si possa dire. Io mi meraviglio che ella abbia potuto qui pronunziarla. Fu Ministro dell'Agricoltura e Foreste prima col Cairoli, dal 1879 al 1881, e poi nel primo ministero Crispi, dal 1888 al 1891 Verso la fine del 1892 scoppiava lo scandalo della Banca Romana, compromettendo molti uomini politici di primo piano, tra cui il Miceli, e allagando l' Italia di sospetti e di pericoloso scetticismo sulla vita politica del Paese. «Forse scrive Luigi Arcano su «Il Tempo» del 21 gennaio 1960 — per evitare la competenza dell'Alta Corte di Giustizia furono risparmiati dall'incriminazione gli onorevoli Miceli e Grimaldi».
Lo stesso Arcano cosi continua: «Dei numerosi testi indicati da Monzilli il primo ad essere interrogato è il Ministro Miceli, il quale elogia la relazione dell' ispezione amministrativa riservata fattagli dall'imputato in contrasto con l'inchiesta Alvisi. Ma il Miceli dovette subire l'umiliazione di spiegare come e perché aveva ricevuto dieci mila lire dalla Banca Romana: gli erano state date — egli spiega — per finanziare il giornale «La Riforma». In seguito a tale incidente (unica ombra tra tanta luce), che avversari incoscienti e senza scrupolo calunniosamente esagerarono, la fortuna politica del Miceli lentamente incominciava a tramontare. Si spegneva a Roma nel 1906: con lui la Calabria perdeva uno dei suoi migliori uomini dal quale tanti benefici aveva ricevuto; l'Italia un fervente patriota e un abilissimo uomo politico.
di Emilio Frangella
Pubblichiamo alcune lettere inedite di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi a Luigi Miceli. Clicca sull'immagine per leggere. Si ringrazia la Fam. Frangella per la collaborazione.